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Di recente mi sono accorto che una espressione che avevo utilizzato con alcuni conoscenti ha finito per essere menzionata in giro. Vorrei allora chiarire che cosa intendo, perché è piuttosto semplice confonderla o omologarla ad un concetto ben conosciuto nel mondo degli investimenti, la diversificazione.
La diversificazione è un concetto trito, pur se non sempre applicato con il minimo di diligenza che richiede. Si può descrivere come un analogo del principio della cultura contadina di non mettere tutte le proprie uova nello stesso paniere: aiuta a far sì che un portafoglio di asset non si muova tutto nella stessa direzione o con la stessa velocità, soprattutto che non subisca gli effetti negativi di eventuali movimenti o eventi sfavorevoli, e a diminuirne il rischio complessivo. Se il mercato va su come una saetta si rischia solo un po’ di rimpianto, appena le cose vanno meno bene si evita il panico. I portafogli ben diversificati di solito hanno rendimenti più stabili e varianze (sbalzi di valore) più contenute.
Nel mondo delle startup è tendenzialmente chiaro il concetto che molte iniziative sono destinate al fallimento, quindi gli investitori professionali dovrebbero essere più attenti al principio della diversificazione. Raramente però si occupano in modo appropriato del fatto che un portafoglio in cui ogni investimento è soggetto al rischio di perdita completa si comporta diversamente da un portafoglio classico, e richiede un modus operativo strutturalmente differente da quello classico. Alcuni aspetti sono intuitivi, altri molto meno. Coloro che abbiano praticato in modo professionale attività che hanno elevata o completa pertinenza con le scommesse, come trader, gestori di book di opzioni o allibratori, di solito hanno sviluppato una sensibilità più marcata.
L’introduzione del rischio di perdita completa rende i portafogli molto più instabili, e il comportamento esponenziale delle componenti che hanno successo li rende entusiasmanti, ma anche esposti a delusioni cocenti. Per passare dall’investimento in innovazione come scommessa a quello professionale, e quindi mirare ad offrire performance superiori abbinate a chance ragionevoli di ottenerle, le logiche di gestione devono essere necessariamente molto diverse da quelle di “avere un buon numero di investimenti”.
Ho già accennato in questo articolo di qualche giorno fa come sia necessario guardarsi attorno quando ci si occupa di territori come l’investimento in innovazione. L’incertezza degli investimenti diventa estrema, ciascuno è una scommessa con le sue probabilità, i suoi possibili “montepremi”, le sue caratteristiche di esponenzialità (*) più o meno marcata. Non si possono quindi ignorare le tecniche consolidate che esistono, anzi. Sarebbe invece opportuno fare ricerca per metterne a punto di nuove. Se conosco i miei polli, sono certo che questo avviene nei vincitori seriali, che infatti sono tipicamente gestori con dimensioni più grandi della media.
Senza aver fatto selezione fondi, non è banale distinguere le abilità dalla fortuna, e guardare ai soli rendimenti potrebbe dare informazioni decisamente distorte circa la bravura dei gestori.
Mi è capitato di leggere che la dimensione ottima di un fondo di Venture Capital potrebbe essere intorno ai 500 milioni, il che ha senso solo se lo tratto come una scommessa. Appena lo tratto come un investimento, questa affermazione perde di senso, perché il rendimento lo devo confrontare con il rischio. Mentre un fondo piccolo probabilmente è molto rischioso, uno molto grande può permettersi di perdere scommesse importanti, senza rischiare di compromettere i rendimenti ottenuti o le varianze. Ecco perché Softbank, il fondo di Venture Capital più grande del mondo, continua a crescere, ed è notizia di questi giorni che abbia intenzione di creare periodicamente fondi da 100 miliardi ciascuno.
Guardiamo questa affermazione dal punto di vista dei gestori di fondi istituzionali: quanto mi interessa che un fondo di VC renda almeno il triplo su 10 anni? Molto, se si tratta di una scommessa bella e buona. Molto meno, se il fondo dimostra di avere una rischiosità inferiore a quella di altri asset ma riesce a produrre rendimenti con un alpha (*) significativo.
Ecco facilmente spiegata la strategia di Softbank: sanno di poter raccogliere quanto vogliono perché offrono un alpha significativo senza essere dei petardi piazzati nei portafogli dei loro clienti. Questo per gli investitori istituzionali è oro. La promessa di rendimenti mirabolanti attira gli investitori come ogni altro essere umano, ma i professionisti sanno che rendimenti esplosivi in passato potrebbero essere frutto di semplice fortuna.
Potrete attirarli con la vostra professionalità nella selezione di progetti brillanti, ma se volete convincerli dovete offrire loro una prova inconfutabile del fatto che avete un portafoglio gestito in maniera statistica, come loro non potrebbero fare. Altrimenti la tentazione di quell’istituzionale potrebbe diventare: “fammi guardare il loro portafoglio, al massimo investo in una decina dei loro deal, e gli lascio i cadaveri.” Quasi nessuno lo fa? Certo, ma se non investono è perché nella loro testa hanno fatto un ragionamento simile, e non hanno tempo o voglia di fare “outsmarting” (*).
Qual’è il modo più ovvio per evitare che gli istituzionali facciano ragionamenti che mi impediscono di raccogliere da loro? Avere tanti investimenti.
500 Startup prese questo nome proprio perché era più solido costruire una struttura di VC che avesse almeno 500 startup sexy dentro, che per quei tempi erano proprio tante. Oggi hanno quasi duemila aziende, e perfino in Russia il fondo Skolkovo, di emanazione governativa, ne ha un numero paragonabile. Andreesen Horowitz, uno dei migliori da decadi, cerca di raccogliere fondi da 5 miliardi di dollari in su.
L’industria dell’investment banking è una miniera di best practice (*). Se non è la più competitiva del mondo poco ci manca, e ha fatto della best practice un mantra più concreto e profittevole delle società di consulenza. Questo perché l’investment banking ha skin in the game (*), mentre le società di consulenza no.
Da decenni saccheggia intelligenze dalle migliori università e istituzioni del mondo, offrendo remunerazioni elevate ai migliori che trova in qualsiasi campo, dall’economia e finanza alla scienze teoriche e applicate, come fisica, matematica, statistica, ma anche aree impensabili come la biologia. Ovvio che riesca a produrre ricchezza in quantità considerevoli, anche oggi che ha subito gravi danni dalla crisi del 2008. Lo fa nonostante il sempre più stretto giogo delle autorità di vigilanza, che hanno imposto parametri e regole via via più stringenti in questi 10 anni.
Le aree su cui ha da insegnare sono molte. Ne cito un paio, rilevanti per questo discorso.
Il trading è un’area di considerevole importanza per le banche d’investimento. Potrebbe essere inteso come banale speculazione, ma è molto più di questo. È occuparsi di un mercato, fare in modo che sia liquido anche quando potrebbe non esserlo per nulla, comprenderne le dinamiche talmente a fondo da essere una risorsa di consulenza irrinunciabile per i propri clienti.
Ci vorrebbe un libro solo per raccontare tutte le minuzie di questo ambito così profittevole e importante per i banker. Qui mi preme mettere in luce come essi si occupino istituzionalmente di situazioni di rischio estremo, e le gestiscano in maniera differente da quello che avviene normalmente nei fondi di VC, che pure condividono quella rischiosità.
I trader sanno perfettamente che ogni deal, ogni operazione che intraprendono, potrebbe non solo non rendere nulla, ma causare perdite considerevoli. La maggior parte delle loro operazioni sono fatte in leva finanziaria, quindi se mettono a rischio 10 in realtà stanno facendo tipicamente una operazione da oltre 100 di controvalore, o magari 1000. In passato questa leva era molto più pronunciata, e per una banca nel suo complesso poteva arrivare a oltre 50. Oggi le autorità di vigilanza hanno ridotto quella flessibilità, che sui singoli deal rimane peraltro ampia.
Come fanno a guadagnare sistematicamente? Gestendo i deal in modo statistico. Nessun trader verrà mai licenziato per aver sbagliato un trade, a meno che l’operazione non sia gigante e magari fatta senza il consenso del capo. Vengono giudicati periodicamente, sui risultati del complesso del loro “portafoglio”, che in questo territorio si chiama book.
I trader hanno una considerevole libertà di azione, perché non è possibile arrivare a comprendere tutti i parametri che il singolo trader conosce prima di validare l’operazione. Notate per caso una differenza con l’operatività degli investimenti in innovazione? Questi ultimi sono quasi sempre collegiali, con le rare eccezioni di Angel o investitori che hanno, scusate, le palle per prendersi la responsabilità delle proprie scelte.
Perché è importante questo punto? Per due motivi:
È estremamente difficile valutare una innovazione. Se fosse semplice, tutti gli investitori in questo ambito sarebbero ricchi. Non conta per niente che la capiscano tutti, basta che una persona intelligente, affidabile, la comprenda, perché possa rivelarsi davvero profittevole nel tempo.
Non è saggio pretendere che sia un capo o un board a decidere se un investimento in innovazione ha senso, esattamente come non lo sarebbe per un trader far votare ai suoi colleghi l’operazione che sta per intraprendere.
Ogni singola operazione ha risvolti che potrebbero non essere compresi da persone che non hanno osservato tutti i dettagli che ha invece in testa l’operativo, e alla fine potrebbe essere semplicemente una questione di intuito, che non ha la caratteristica di essere facilmente trasferibile ad altri.
È infinitamente più efficiente diversificare il rischio con tanti trader che ragionano di testa propria, rispetto ad avere una struttura gerarchica che decide.
Questo lo è perfino di più quando ci si addentra in una zona a rischio estremo come l’innovazione e le startup, dove anche persone geniali come Thomas Edison, Adriano Olivetti o i partner di Andreesen Horowitz fanno cose ridicole (ex post!) come rifiutare investimenti a Nikla Tesla, Steve Jobs o Mark Zuckerberg.
Sarebbe più sensato, in questo territorio, mettere in competizione più operativi sugli stessi deal, e vedere se qualcuno esprime una convinzione sufficientemente forte da prendere la startup nel suo portafoglio personale, invece che cercare il consenso.
Altrimenti si potrebbe giungere al paradosso che il portafoglio di un singolo investitore, pur se diversificato in modo analogo, potrebbe tranquillamente battere quello di un fondo di VC: questi potrebbe non essere distratto, o distolto, da commenti di persone del team che non sanno valutare bene alcuni specifici investimenti, e hanno dei blind spot (*). Una volta che la persona è preparata, non attribuirgli autorità decisionale potrebbe peggiorare la situazione complessiva della gestione.
Nel mio piccolo, avendo accumulato circa 30 anni di valutazione dei modelli di business, trovo sempre interessante valutare le startup. Ma sono perfettamente conscio di riuscire ad esprimere un giudizio sul quale mi sentirei di scommettere a malapena nel 50% dei casi. Come mai? Eppure i business che ho visto nascere, crescere, fallire, devono essere stati decine di migliaia, visto che per quasi una decina anni sceglierli è stata la mia professione.
Perché anche se spesso riconosco il talento, la Qualità (*) nella creazione di valore che tanto mi appassiona, ci sono molti ambiti nei quali non mi sento sicuro di saper capire sfumature che potrebbero decidere se l’idea è un possibile blockbuster, cioè se potrebbe raggiungere obbiettivi di eccellenza, oppure no.
A titolo di curiosità: la mia vecchia industria è talmente consapevole di aspetti apparentemente marginali come quelli comportamentali e psicologici del trading, che non esita a scegliere le persone in modo davvero curioso. Nei desk di cambi / valute, un territorio in cui i singoli deal possono avere taglio superiore a 5 miliardi di dollari ciascuno, si è osservato che i trader quando diventano “vecchi” perdono la grinta e la follia che ci vuole per comperare o vendere importi di quel genere, perchè cominciano a preoccuparsi del loro posto di lavoro. Così si racconta di desk fatti da ragazzini fra i 16 e i 20 anni, che a 22 erano già considerati non più adatti.
Questo tipo di ragionamenti è analogo quelli dei migliori team calcistici, che valutano sistematicamente componenti come “ha la fidanzata” per migliorare le previsioni sui calciatori sui quali investire.
Se poi si parla di trader che si occupano di opzioni, la questione della profittabilità della singola operazione diventa anche più importante: almeno il 75% delle opzioni scadono senza valore. Notate qualche somiglianza con le startup?
Vero che i market maker possono anche vendere opzioni, cosa non possibile agli investitori, ma siccome la vendita di opzioni è ben più rischiosa del loro acquisto, i trader tendono a non abusarne. Sanno che potrebbero dover cambiare lavoro in fretta, se si facessero prendere la mano da quella possibilità. Il famoso fondo LTCM insegnò a tutti che essere sistematicamente corti volatilità (*) non è idea particolarmente saggia.
Maneggiare asset che hanno il vizio di scadere a zero è alla base dell’operatività, e gli operatori si regolano di conseguenza. Come accennavo nell’articolo precedente, l’acquisto è spesso regolato dalla logica del potenziale: se una opzione ha un gamma (*) elevato, è una candidata all’acquisto. Se il mio portafoglio diventa più equilibrato grazie a quella opzione, la compro e basta. Se migliora il potenziale in maniera significativa, potrebbe aiutarmi a cogliere un cigno nero (*), e non costa troppo, idem.
Rilevanza del prezzo? Moderata. Rilevanza della probabilità che scada effettivamente con un valore intrinseco buono? Moderata.
Queste sono alcune delle peculiarità del processo decisionale, che è solidamente codificato. In questo segmento chiunque ragiona così, perché è il modo di guadagnare in situazioni di incertezza estrema.
Quello che conta è che l’operativo sappia mettere insieme un portafoglio statisticamente redditizio, e parecchio. Nessuno verrà mai a rompere le scatole se 10 o 100 delle opzioni del book sono scadute senza valore. Lo faranno se il trader non dovesse aver costruito un buon P&L (*), e andranno eventualmente a valutare i parametri di volatilità, di delta e di gamma (*).
Il combinato composto di queste cose è gestione statistica, non diversificazione. Non conta solo che io abbia un buon numero di investimenti, anche se quando si parla di innovazione buono andrebbe misurato in centinaia se non direttamente in migliaia di deal. Conta il processo decisionale e come sfrutto le risorse decisorie, il modo in cui assemblo i miei book, il tipo di asset che scelgo.
Da notare che non tutta l’industria dell’investment banking ha a che fare con il rischio estremo. Le fusioni e le acquisizioni (anche chiamato M&A) sono operazioni che hanno più parentela con la gestione di fondi di Private Equity (PE), e quasi nulla in comune con le pratiche descritte sopra. Gli operatori che vengono da quel settore hanno competenze utili per valutare i team, le possibilità di execution, eccetera, ma sono portati a considerare molto rischiose le startup che non abbiano ragionevoli possibilità di essere vendute a 10x o 30x (*) in 5 anni.
È un riflesso condizionato comprensibile, ma che potrebbe peggiorare di molto il profilo di rischio di un portafoglio di VC vero: una startup che giustifichi il rischio sistematico, consecutivo, della perdita completa dell’investimento deve poter “facilmente” arrivare a 100, 200, 500x. Ricordiamo nuovamente: le Facebook, Amazon, Google hanno raggiunto moltiplicatori parecchio superiori a 10,000x, quindi i portafogli che perseguono questa particolare asset class devono essere costruiti in maniera ben diversa rispetto a quelli di Private Equity.
La creazione di startup è l’arte di (provare a) costruire imprese che raggiungano quei moltiplicatori. Il resto rimane interessante, ma non altrettanto remunerativo.
Come abbiamo detto fra le righe sia in questo che nell’articolo precedente, un conto è avere una serie di investimenti che hanno attese di rendimento plausibili e rischi controllati, altro è scommettere su un certo numero di possibili imprese di successo. Se il primo è un portafoglio di titoli azionari, il secondo è un portafoglio di opzioni su (possibili, futuri) titoli azionari. L’elemento “exit”, cioè la liquidazione di un investimento in startup che ha avuto successo, per ora lo possiamo trascurare.
Se trascuriamo anche l’aspetto geografico/valutario, diversificare significa inserire in portafoglio un certo numero di titoli con caratteristiche diverse fra loro, alcuni difensivi, altri ciclici, altri anti-ciclici, eccetera. Alcuni saranno di qualità elevata, come le blue chips, altri più speculativi.
Se scelgo con cura, ho aspettative che ciascuno di questi si comporterà ragionevolmente bene, perché ha un business con una storia e numeri concreti da analizzare e valutare. Sarà influenzato dall’indice generale del mercato, e quindi avrà un coefficiente chiamato beta (*), che descrive come il singolo titolo si muove a confronto con il suo benchmark di riferimento. Ogni titolo o portafoglio poi avrà il suo coefficiente alpha, che come dicevamo descrive la sua particolare capacità di generale valore in quanto rappresentativo di una azienda con le sue specificità.
Le startup teoricamente potrebbero essere influenzate da parametri come quelli, perchè risentono dell’economia, degli indici di borsa, e hanno le loro caratteristiche peculiari.
Hanno però elementi che le distinguono in modo radicale dai titoli o dalle aziende tradizionali.
In primis non hanno una storia affidabile, e devono ancora dar prova in larghissima misura del loro potenziale, quindi fare affidamento sulle previsioni del mercato per capirne l’appetibilità è del tutto fuori luogo.
Poi sono tipicamente degli investimenti con un “gamma”: se le cose vanno bene hanno capacità di accelerazione inesistenti negli investimenti tradizionali. Infatti la loro performance non viene valutata in percentuale, ma in moltiplicatore: 30x significa un rendimento di 3000 punti percentuali. Per una startup è un rendimento molto basso, se guardiamo ad un orizzonte temporale di 5 o 10 anni, mentre per un titolo azionario sarebbe notevole.
Lasciate perdere il fatto che per un comune mortale passare in 5 anni da 100 mila Euro a 3 milioni sarebbe un sogno: per un portafoglio di innovazione quel rendimento non giustifica minimamente il rischio che altre 29 startup del portafoglio, nel frattempo, potrebbero essere fallite. Costruire un portafoglio da 30 startup sperando che facciano i 30, ma anche i 100x, non è il modo corretto. Può andar bene per un privato, che giustamente si leccherebbe i baffi, ma se si tratta di contribuire alle performance di fondi pensione con masse gestite da centinaia di miliardi o trilioni di Euro non entrano nemmeno nei radar.
Il discorso diventa più sofisticato, e ben più sfumato, per quei portafogli che cercano di occupare lo spazio di Venture Capital con logiche da Private Equity: giocare nell’innovazione con importi molto grossi richiede la possibilità di assumersi rischi cospicui, e perde quasi completamente la caratteristica di asset management per diventare attività di Merger & Acquisition e che potrebbe essere considerato gioco d’azzardo con cifre enormi.
Chi vuole occupare quello spazio o ha le spalle molto larghe (la Softbank di cui parlavamo prima, o la Andreesen Horovitz che raccoglie fondi da 5 miliardi, o la Goldman Sachs), o sta semplicemente rischiando parecchio.
Per chi ricorda l’investimento di Microsoft in Facebook, non sarà difficile immaginare che a quel punto le cose avrebbero potuto andare anche storte. È successo con Fastweb in Italia, è ancora il problema di Twitter. Il profilo di rischio/rendimento dei fondi che si occupano solo di quello spazio è uno dei più delicati dal punto di vista dell’asset management. Quel tipo di operatività potrebbe anche essere considerata alla stregua di quelle da “big swinging dick” di John Meriwether, descritte da Michael Lewis nel leggendario “Liar’s Poker”.
esponenzialità: mi riferisco al fatto che investimenti in startup, quando vanno bene, non sono come quelli normali, cioè non rendono il 10, 20, 50%. Rendono un multiplo come 10, 100 o 1000 volte l’importo investito. Facebook ad oggi vale quasi 100 mila volte il primo valore a cui ricevette un investimento.
alpha: La componente di rendimento separata dal rischio di mercato. Si parla di alpha per descrivere, tipicamente, il sovra rendimento che un titolo o un portafoglio riescono a sviluppare quando li si confronta con il loro benchmark di riferimento. Per un fondo il benchmark potrebbe essere un indice di fondi o di mercato, per un titolo potrebbe essere il suo indice settoriale.
outsmarting: (cercare di) essere più bravo di qualcuno.
best practice: le pratiche migliori di qualsiasi area operativa. Espressione nata probabilmente nella consulenza, un settore che si occupa di trovare e riciclare le best practice nei clienti meno bravi, e di aiutarli ad applicarle.
skin in the game: si dice quando una persona o una istituzione è direttamente interessata al successo di qualcosa, e/o è esposta al rischio che quella cosa possa andare storta. In entrambi i casi tendono a fare del loro meglio per non sbagliare. È anche il titolo dell’ultimo libro di Nassim Taleb, che analizza in maniera molto approfondita l’importanza di avere “skin in the game”, in tanti contesti, non solo quello degli investimenti.
blind spot: aree in cui il nostro cervello non riesce a processare le informazioni. A volte sono causate da traumi, paure inconsce, eccetera.
Qualità: qui è intesa quasi a livello filosofico, come nel libro “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” di Pirsig.
corti volatilità: una espressione tecnica per descrivere una posizione di vendita di opzioni, che cerca di approfittare del fatto che statisticamente, a scadenza, la maggior parte di esse vale 0, come descrivevamo sopra.
Volatilità, delta e gamma sono i parametri qualitativi che definiscono ogni singola opzione e le sue caratteristiche.
La volatilità è il prezzo, ma anche una espressione di rischiosità della opzione e del suo sottostante. Essere lunghi volatilità significa comperare la possibilità che quel particolare asset salga o scenda molto, e molto rapidamente.
Il delta è la trazione relativa della opzione, in relazione al suo sottostante, e risponde alla domanda “di quanto varia il valore dell’opzione se il sottostante varia di X?”. Se dovessimo ragionare in termini di startup faremmo un parallelo con la possibilità che una startup avrebbe di diventare una star, se il suo settore dovesse improvvisamente diventare interessante. Potremmo tranquillamente paragonare il delta alla scalabilità di una startup.
Il Gamma è il potenziale di accelerazione del delta di una opzione, il fattore “esplosivo”. Un gamma elevato si traduce in una opzione che può dare molte soddisfazioni. Ovviamente questa caratteristica la hanno anche le startup, ma quasi nessuno la considera davvero da vicino: ci si accontenta della scalabilità.
cigno nero: espressione per descrivere un evento improbabile, che potrebbe avere conseguenze molto rilevanti. È una espressione molto usata in finanza da quando è stata usata da Nassim Taleb per il titolo del suo principale bestseller.
P&L: Profit & Loss, il conto dei profitti e delle perdite, che per un trader si traduce nella domanda “ho guadagnato abbastanza?”
10x o 30x: è il modo di descrivere il moltiplicatore di un investimento. Quando si parla di investimenti con rischi elevati, non si cerca più una percentuale (il 10% l’anno) ma un moltiplicatore (si pronuncia “dieci per” o “trenta per”).
beta: è il parente di alpha. Con beta si fa riferimento al parametro che mostra la assonanza di un titolo, o di un portafoglio, ai suoi benchmark. Si tratta di un numero che descrive quanto è simile nei comportamenti e soprattutto nella sua performance: beta pari a 1 significa che il titolo, o il portafoglio, è un ottimo proxy del mercato. Se avesse un beta pari -1, si tratterebbe di un asset simmetrico, una ottima copertura del rischio del benchmark.
Written by
Founder Kjuicer & Green Gap, cofounder Condogreen Spa. 15y in startups, also as advisor to incubators & accelerators. 15y in asset management and banking including Deutsche Bank, Commerzbank. Edu: Bocconi University, MIP Politecnico di Milano.